Il premier Mario Monti ha bollato il lavoro stabile come monotono. E giù commenti inaciditi su Twitter e Facebook. Ma c’è qualcuno che la pensa diversamente, come Luca Panzarella, autore de Il lavoro è finito. Come adattarsi al nuovo scenario?
02 febbraio 2012 di Luca Panzarella
Dopo due anni passati all’estero la gente mi chiede: ma fuori c’è lavoro? Io rispondo convinto “ Sì, certo che c’è”. E non posso fare a meno di immaginarmi questo lavoro, un’entità con le gambe accavallate in sala d’attesa, che quando arrivi lui si alza e dice: “ Piacere, lavoro”. Ma dopo tre mesi che questa storia va avanti ho capito di aver commesso un grave errore.
No, fuori non c’è lavoro. O meglio: il lavoro c’era. Ma è finito. Ora è più chiaro? Forse no. Allora faccio un passo indietro e cerco di spiegare. Viviamo un periodo difficile. La gente scende in piazza per protestare. Vuole meno tasse, più soldi, una pensione. Vuole, fondamentalmente, essere felice. Dateci il lavoro, urla. Ma cos’è esattamente sto lavoro, mi chiedo.
È del tempo speso in cambio di denaro? Una stabilità economica che ti permette di programmare la vita privata? Una ricompensa per il miglioramento sociale a cui contribuisci? Una mazzetta per non farti diventare competitor del tuo capo? Un parcheggio spirituale? Questo dubbio è diventato la mia nuova ossessione.
Me lo chiedo quando arrivano dei soldi a fine mese per le campagne pubblicitarie che ho online. Me lo chiedo quando prendo un progetto proveniente da Milano, lo consegno a un project manager belga, lo faccio sviluppare in Sicilia, lo presento a Londra e ricevo un bonifico online. In tutti questi passaggi quand’è che posso dire di aver lavorato? Me lo chiedo quando dedico tutto me stesso ai progetti personali per cui non so se riceverò mai un soldo. Me lo chiedo quando a Londra faccio una consulenza di user experience design che dura tre settimane e vengo pagato come due mesi in Italia.
E nel mese successivo in cui non lavoro, mi chiedo se persino quello è lavoro. Mi chiedo se considerare i vantaggi di scrivere un blog – notorietà, contatti, incontri con i lettori – allo stesso livello di uno stipendio. Quando parto per una settimana e affitto il mio appartamento per 400 euro la settimana, mi chiedo se quei soldi sono il frutto di un lavoro. All’inizio la mia cultura mi diceva che no, quello che stavo facendo non poteva chiamarsi lavoro. Era un surrogato, un trucchetto con cui non sarei potuto andare avanti per molto. Poi mi sono trasferito a Londra. E cosa scopro? Che la maggior parte delle persone vive così.
Queste persone non sanno cosa sia il risparmio, non sanno cosa sia uno stipendio mensile per avere un futuro facile da determinare. Queste persone – semplicemente – non la vogliono una vita così. A Londra ho conosciuto maghi, giocatori di poker con partita iva e l’indimenticabile regina degli appartamenti; ho seguito casi come quello di Willwoosh e di Equal3, del nerd che vende disegni di gattini online, del libro di Tim Ferries. Dei pazzi. Pazzi che avevano trovato un modo unico di vivere il proprio lavoro. Dice: vabbè a Londra la gente, si sa, è stravagante.
Allora sono andato a San Francisco. E cosa scopro? Che non solo i pazzi esistono anche lì, ma che c’è un intero ecosistema pronto a finanziarli con dei budget che in Italia riusciamo solo a immaginare.
Loro le chiamano startup, ma questa è un’altra storia. E ho immaginato una mappa che raccoglie le città nevralgiche di tutto il mondo fatta da persone che stanno rivoltando il concetto di lavoro, lo stanno facendo proprio e lo esprimono in un modo così affascinante come fosse un’opera d’arte. Così ho smesso di considerare pazza questa gente. Ho ripiegato prima su coraggiosa, poi determinata, ma in realtà non andava bene nemmeno così. E finalmente ho capito.
Queste persone sono molto più banalmente disperate. Sei disperato quando dovresti allinearti al modo comune di fare le cose, ma non ci riesci. Per quanto possa sforzarti, non ce la fai. E allora l’unica soluzione è quella crearti il tuo mondo, con le tue regole, la tua visione. C’è da dire che parte di queste persone non ce la fa. Non sempre la visione si trasforma in realtà e qualcuno rimane intrappolato all’interno dei propri sogni. Però, insomma.
Questo è il nuovo mondo che ho visto, che osservo compiaciuto. Mi piace pensare che questo movimento stia scardinando di nascosto i principali paradigmi sociali a cui siamo abituati. Arriva Facebook e dice: la privacy non esiste. La gente borbotta un po’, magari fa qualche sciopero. Ma poi alla fine accetta il nuovo paradigma. Cerchi un posto per affittare il tuo cervello otto ore al giorno per i prossimi quarant’anni? Mi spiace, il lavoro è finito. Puoi decidere se borbottare anche tu. Magari fare qualche sciopero. E alla fine accettare il nuovo paradigma.